L’ospedalizzazione e il ritorno a casa. Il Counseling incontra il Coaching per tornare dopo una lunga ospedalizzazione.
“Prendi tempo per raccogliere il passato in modo che sarai in grado di imparare dalla tua esperienza e investirla nel futuro.” JIM ROHN
Non c’è cosa più desiderata che quella di tornare a casa dopo una lunga degenza in ospedale.
Non c’è niente di più sognato che riaccogliere un proprio caro a casa.
Non c’è nulla di più appagante che vedere un proprio paziente uscire dall’ospedale.
Ognuno di loro, probabilmente vive la sensazione di tornare alla vita, spesso con l’aspettativa di tornare alla “normalità”.
Ciò che, però non si sa, è che questo passaggio non è sempre così semplice e lineare.
Forse, una delle difficoltà più grandi di tornare a casa, è pensare di tornare alla “solita vita”; ma un’esperienza come l’ospedalizzazione, anche senza ripercussioni fisiche evidenti, sancisce un “prima ed un dopo”, niente può essere come prima. Non può esserlo per il malato, non può esserlo per chi è intorno a lui.
Il punto è trovare un nuovo modo di vivere con l’esperienza vissuta.
Io stessa, purtroppo, ho dovuta più volte affrontare tutto questo. Tornare a casa era un desiderio e, allo stesso tempo, una grande paura e ansia da affrontare.
Non soffre solo chi sta male...
Sebbene l’ospedale fosse un ambiente di dolore e limitazione, allo stesso tempo rappresentava un luogo che mi proteggeva.
Paradossalmente quelle routine che sembravano così ostili, tutt’ad un tratto mi sembravano così sicure e facili da seguire. Fuori, cosa avrei dovuto affrontare? A chi avrei chiesto aiuto? La mia famiglia sarebbe stata pronta? Io avrei saputo chiedere qualcosa che per tutto quel tempo erano gli altri a sapere di cosa avevo bisogno? E i miei amici avrebbero capito chi ero diventata dopo questa esperienza?
Allo stesso tempo, tornata a casa, ho osservato i miei familiari. Anche loro mi sembravano impauriti, stanchi di quell’ospedalizzazione, incapaci di trovare la quadra tra la loro vita e la mia, ognuno in cerca di una nuova collocazione.
Mi rendevo sempre più conto, che affrontare il dolore, lo sconforto, la paura, mi avrebbe permesso di diventare consapevole della mia realtà. Fare ciò, mi avrebbe permesso, di conseguenza, di riconoscere le mie capacità e potenzialità per riorganizzare la mia vita e dare nuovo slancio alla mia quotidianità, senza alienare la mia stessa identità.
La mia professione, le mie ricerche nel campo e le mie esperienze, mi hanno fatto rendere conto che ciò che provavo era riconosciuto dalla maggior parte delle persone che avevano avuto esperienze simili.
Non solo: tutto questo non è vero solo per il paziente, ma lo è altrettanto per tutta la sua rete di relazioni.
Accogliere e gestire chi ha sofferto, è una grossa sfida, soprattutto se non si hanno le competenze per farlo. La vicinanza emotiva ci disorienta e non permette di prenderci cura, in maniera efficace, anche del proprio dolore e delle proprie difficoltà.
È quando si torna a casa inizia il vero viaggio verso il ritornare alla “normalità”, ad una nuova normalità.
È a casa che si affrontano le nuove e vecchie difficoltà, che si deve imparare a comunicare i propri bisogni ed a usare le proprie risorse.
l desiderio di tornare al quotiniano...ma quale quotidiano?
La grande frustrazione per chi torna a casa è, paradossalmente, il fatto di non essere più riconosciuti come malati. Sei guarito, ti hanno aggiustato, e quindi non hai più diritto di stare male, di lamentarti, di avere paura. Spesso, quando la gente conosce la mia storia, si meraviglia del mio stato e delle piccole e grandi difficoltà che mi trascino ogni giorno appresso. Ufficialmente ho solo una patologia gestibile e sotto controllo, ma il corollario che ruota intorno è la parte più pesante nel quotidiano.
Se torno alla memoria di quei tempi, ricordo benissimo il grande desiderio di buttarmi tutto alle spalle, di mettere la parola fine a quella lunga pausa dalla mia vita. Nella mia testa il mio corpo e la mia anima avevano solo bisogno di riposare e tornare alla quotidianità. Era qualcosa di momentaneo.
Eppure, la prima difficoltà che mi trovai ad affrontare fu proprio tornare alla quotidianità: da un lato, per allontanarmi dal ricordo dell’ospedale e, dall’altro, una ossessione nel mantenere le abitudini di sempre. Non solo, era difficilissimo riconoscersi. Riconoscersi nei pensieri, nelle emozioni, nelle nuove risposte (o non risposte) del corpo.
Da persona veloce, coraggiosa, stoica quasi, ero diventata un koala da appartamento: pigro, incostante, tristemente indeciso.
Certo, il mio nervosismo era comprensibile, anche solo per la gestione quotidiana della paura che tutto potesse riaccadere, il rifiuto e la gestione di ogni dolore e fastidio. Ma la giustificazione, soprattutto nel mio mondo, non era contemplata.
Nonostante fossi uscita finalmente da un incubo, nella realtà mi mancava qualcosa. Dovunque andassi, qualunque cosa facessi mi sentivo sempre fuori posto.
Anche dentro casa non ero più la stessa. I rapporti con la mia famiglia non erano più gli stessi. Stranamente, anche loro sembravano non riconoscermi e non riconoscersi. Non capivo perché si litigava sempre, non mi sentivo compresa proprio da chi voleva aiutarmi, non eravamo più allineati neanche su cose che prima erano condivise. Mi sembrava come se ci fossimo allontanati mille miglia. In qualche modo, la mia ospedalizzazione aveva cambiato anche loro.
Senza contare che a tutto questo, si aggiungeva la difficoltà di raccontare tutto questo ai medici, per i quali ero ormai guarita. I medici, non è che non vogliono aiutare, ma non capiscono, chiusi nella loro specializzazione e nei loro tempi stretti. Quante volte mi sono vista allargare le braccia in segno di “non so che dirle, signora, è così”.
Per loro il problema non esiste, almeno nel loro campo.
La guarigione passa per il coraggio di chiedere aiuto...
E allora iniziai a cercare qualcuno che potesse aiutarmi. Ho girato tanti di quei medici, che non ne ho più memoria. E poi succede che sei sfinita. Sei delusa, cinica,
Nel frattempo, avevo ripreso a lavorare, pretendendo da me cose che mi sembravano faticosissime e inutile: viaggiare nelle emozioni e nel corpo degli altri era un’impresa enorme. Quasi rimpiangevo la semplicità, la sicurezza, dell’ospedale; sentivo che lì ero più simile a me: lottatrice positiva, mi sentivo in qualche modo più viva lì che ora che ero tornata finalmente a casa.
Ero in uno stato depressivo, o almeno di grande confusione. Non capivo e non avevo più forze per farlo. E allora mi sono domandata: e ora che faccio? Butto la spugna? Sono viva ma non voglio vivere solo di aspettative, di desideri di attese che tutto passi: in effetti, molte cose, non sarebbero cambiate. Mi sono anche chiesta se valeva la pena di essere tornata.
L’aspetto più frustrante è scoprire che la guarigione non è di per sé costanza; non è un’equazione. La stabilità si raggiunge affrontando il caos, i passi in avanti, e soprattutto quelli indietro. Ho capito che l’evoluzione stessa non è lineare e regolare: è un vortice che, per salire, deve effettuare un movimento a spirale, cioè tornare un po' indietro per poter spingersi al livello successivo.
“Tornare a casa” è questo: gestire la spirale. Accettare i passi indietro, le paure, i dolori, le frustrazioni, i cambiamenti: solo così possiamo spingerci verso un livello successivo.
Non ero una persona solita a lamentarsi e soprattutto a chiedere aiuto, e questa è stata la prima grande sfida per me. Imparare a chiedere. Non ammettevo neanche a me stessa che mi serviva aiuto, sia dai miei familiari, ma anche da chi poteva aiutarmi a salire di livello. In effetti, avevo un gran bisogno di rimettere in ordine tante cose, avevo bisogno di comprendere e dare un senso a tutto questo. Ero smarrita nel mio quotidiano: ciò che prima era conosciuto ora era nuovo e non sapevo più come muovermici dentro.
Ero tornata a casa, ma nella realtà non lo ero completamente. Mi ero persa qualcosa per strada, forse addirittura sulla porta dell’ospedale.
Livello successivo. Era chiaro che era necessario imparare qualcosa da tutto questo, anche solo qualcosa di me che non conoscevo e che non mi facevano riconoscere più dagli altri. Conoscere chi ero, o almeno, chi ero diventata.
Dopo anni di formazione e di professione, sapevo da dove dovevo partire: era semplice, lo avevo fatto mille volte con i miei clienti. Era necessario iniziare dall’ascolto. Mi resi immediatamente conto di quanto, da quando ero uscita dall’ospedale, non mi fossi più soffermata su di me. Non nel senso di ascoltare i sintomi. Non avevo mai osservato e toccato veramente le mie cicatrici, osservato i resti del passaggio di aghi sul mio corpo, dei lividi che facevano fatica ad andare via. Non avevo ascoltato i miei muscoli contratti e indeboliti da giorni di letto, non avevo mai sentito i miei nervi così tesi a causa delle tante paure e tensioni. Con la testa ero a casa, ma il mio corpo e le mie emozioni erano decisamente rimaste sul letto dell’ospedale.
Ero concentrata sui miei sintomi, sulle mie paure senza esserne veramente consapevole. La grande differenza era che non volevo in realtà ascoltarle, non volevo accettare il cambiamento.
Il cambiamento non è mai doloroso, solo la resistenza al cambiamento lo è. (Buddha)
E così decisi di stare nel mio dolore, di stare nel mio vissuto. Non ne avevo più paura, ma ora che avevo iniziato a diventare amica della mia ospedalizzazione, mi sembrava di essere in un vicolo cieco. Tutta concentrata su di me e incapace di vedere il passo successivo. E così scelsi con chi “tornare a Casa”; tornare a me, alla mia famiglia, alla mia vita. Come diciamo noi Counselor : ”cosa ci facciamo con tutta questa roba?”
Condividere: questo sentivo necessario; dividere e alleggerire, fare spazio. Quando siamo concentrati su una situazione in cui ci identifichiamo così tanto, questa, diventa gigantesca, prende tutto lo spazio. Parliamo solo di quello, pensiamo solo a quello, sentiamo solo quello. Niente al di fuori di quella situazione ha importanza, ha spazio. Con l’ascolto di me stava succedendo il miracolo che mi aspettavo. Stava iniziando a farsi spazio un desiderio, un bisogno: essere ascoltata, condividere con qualcuno tutto questo per poter riattivare parti di me addormentate.
Ho scelto un Counselor che mi ascoltasse e, soprattutto, mi aiutasse a fare ordine, sostenendomi nel portare a termine i desideri che avevo, ma che in quel momento sembravano così impossibili da raggiungere.
Couseling e Coaching: la combinazione perfetta
Counseling e Coaching, in questi casi sono una combinazione perfetta. Nella mia esperienza anche di Counselor, ritengo che quasi non sia possibile fare l’uno senza l’altro.
Il Counseling, infatti, è una relazione di aiuto all’auto-aiuto, basato su una serie di interventi verbali e di stimoli alla creatività mirati a perseguire e mantenere una sempre migliore qualità di vita relazionale e quindi sociale, esistenziale e pertanto psicologica. Il coaching è, invece, un metodo fondamentalmente orientato all’azione.
L’orientamento di base è condiviso, ovvero promuovere e sostenere il processo di auto-realizzazione dell’individuo attraverso l’instaurarsi di un rapporto tra professionista e cliente. Tuttavia, mentre nel coaching l’intervento è focalizzato sulle performance del cliente in relazione all’obiettivo che si è prefissato di raggiungere, nel Counseling invece ci si dà la possibilità di esplorare, scoprire e chiarire modi di vita più fruttuosi.
In tal senso, creare le condizioni affinché il cliente possa entrare in contatto con la sua natura più profonda, valutando lo stile di vita più intrinsecamente gratificante, è il punto di partenza imprescindibile per qualsiasi attività di definizione di obiettivi e del loro raggiungimento.
Va da sé, immaginare quanto sia stato fruttuoso poter contemporaneamente esplorarmi, condividere le mie emozioni, ridefinire i miei pensieri, ascoltare finalmente l’io corpo e accettarlo per quello che era diventato. Tutto questo mi portava a perdonare e a portare un po' di luce nella mia vita. Già così notavo che la mia vita e le mie relazioni miglioravano; cambiando io, cambiava il mondo intorno a me. Tutto riacquistava colore e molte difficoltà sembravano più leggere. Avevo ricominciato a desiderare, a voler raggiungere traguardi, a sentirmi di nuovo attiva, protagonista della mia vita.
E’ stato qui che ho inserito il Coaching: definire gli obiettivi, voleva dire ridefinirmi. Raggiungerli voleva dire poter diventare orgogliosa di me, e soprattutto cambiare quelle etichette di limiti e malattia che si erano appiccicate addosso. Iniziai a ridefinire ogni parte della mia vita rimasta congelata.
La mia vita, il mio lavoro
Mi ci volle del tempo per individuare come questa esperienza aveva cambiato anche il mio mondo lavorativo. Era difficile, perché l’energia che potevo dedicare era sempre contata e andava divisa tra il supporto ad altri, il prendermi cura di me e le altre cose importanti della vita.
Più raccontavo la mia storia, più mi rendevo conto che la mia esperienza era una risorsa sia per me sia per gli altri. Addirittura anche per i medici e le figure che continuavano a seguirmi. Dare la mia visione, raccontare i miei bisogni e le difficoltà emotive che avevo incontrato faceva a loro “l’effetto specchio”, che tanto amiamo noi counselor. Iniziavo ad essere un counselor per famiglie, ex ospedalizzati e medici.
Ascoltare le difficoltà di chi ha vissuto l’ospedalizzazione mi ha aiutato a fare pace con il mio vissuto; ascoltare i familiari mi ha permesso di conoscere quelle paure, difficoltà ed emozioni che vivevano anche i miei cari; infine condividere e formare tutti quelli che si devono prendere cura degli ex ospedalizzati mi ha permesso di sentirmi utile.
Ma non solo e soprattutto, grazie alla combinazione vincente del Counseling e del Coaching, ho visto ex ospedalizzati ricrearsi una vita ancora più felice del pre-ospedalizzazione, famiglie ricostruite e migliorate dall’esperienza, medici e fisioterapisti più empatici e fuori da rischi di burn-out.
Ed oggi una nuova sfida: come torneranno a casa i malati di Covid? Come torneranno alla vita i sopravvissuti? Una sfida importantissima piena di emozioni da esplorare e familiari da sostenere.
Ecco, come un’esperienza traumatizzante diventa risorsa. Questa mia storia è la storia della Resilienza, del Pensiero Positivo, dove la mia professione è diventata soprattutto uno stile di vita; dove il Counseling e il Coaching hanno trovato un perfetto accordo.
Tutto questo progetto si chiama “Tornare a Casa”, perché è lì che sono tornata, perché è lì che desidero riportare chi si è smarrito.
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